Previdenza: una pensione, un investimento, un salvadanaio


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Da dati ISTAT risulta un invecchiamento della popolazione gift-505610__180
italiana con un’età media di 44,4 anni (la più alta del mondo dopo il Giappone).

Si fanno sempre meno figli. In media 1,3 figli a famiglia rispetto agli anni 70 dove la media era di 2 figli.

Nel 1960 su 10 persone che lavoravano 3 andavano in pensione,  oggi la percentuale è del 71,9% (Fonte: Rapporto Inps-Istat 2013) e nel 2020 sarà del 100%, cioè per ogni lavoratore ci sarà un pensionato (occorre sottolineare in questo calcolo lo svantaggio delle donne: 91 pensionate ogni 100 lavoratrici rispetto agli uomini: 58,2 uomini ogni 100).

Se aggiungete a ciò gli studenti, coloro che emigrano verso altri paesi in cerca di lavoro, i disoccupati e la crescita dell’aspettativa di vita, il bilancio sulla previdenza e sull’assistenza sanitaria diventa molto pesante e nonostante le recenti riforme l’Inps si avvia a ritrovarsi con conti insostenibili. Il suo patrimonio netto che garantisce le pensioni agli italiani lo scorso anno era pari a 18 mld di euro, nel 2015 è sceso a 11 mld e continuando così diventerà negativo per 12 mld nel 2023. Viste le esigue risorse dello Stato Italiano per stabilire politiche a  sostegno delle famiglie come accade invece in Germania (anch’essa con crescita 0) occorrerebbe sempre di più rivolgersi a forme di previdenza complementare.

Il progetto “La Mia Pensione” dell’Inps (simulatore online della situazione pensionistica degli italiani, ecco il link) ha evidenziato ancora di più ai contribuenti il calo dell’affidabilità della copertura offerta dalla previdenza obbligatoria (in particolare dopo l’entrata in vigore del sistema contributivo con la Riforma Fornero).

Fino ad oggi la maggior parte degli italiani è stata riluttante ad aderire a forme di previdenza complementare per timore della volatilità dei mercati finanziari.

Inoltre la previdenza complementare viene spesso percepita come un investimento troppo a lungo termine e poco liquido, difficile da disinvestire prima. In realtà dovrebbe essere considerata come un binario parallelo alla previdenza di base. Non si tratta cioè di una forma di risparmio ma di una pensione di scorta. I contributi previdenziali non sono da intendersi come prelievi ma consumo differito.

Rispetto alla previdenza obbligatoria  però quella complementare risulta molto più flessibile. Una giusta informazione sul funzionamento di fondi e pip (anticipazioni, riscatti, struttura finanziaria, onerosità, tipo di rendite offerte) permetterà di accrescere la consapevolezza e di colmare il gap pensionistico considerando le aspirazioni individuali in merito a stile di vita ed età per ritirarsi.

I benefici derivanti dall’adesione a Fondi e Pip sono tanti e il suggerimento è “non rinviare”:

  • rendimenti finanziari
  • vantaggi fiscali
  • anzianità di iscrizione utile per le anticipazioni e per la riduzione della tassazione sulle prestazioni finali (imposta sostitutiva del 15% che si riduce dello 0,30% per ogni anno di durata superiore al quindicesimo)
  • eventuale contributo del datore di lavoro per i lavoratori dipendenti

Un vantaggio fiscale rilevante è senz’altro la deducibilità dei contributi entro il limite annuo dei 5.164,57 euro.

Altrettanto vantaggiosa per il lavoratore dipendente è la tassazione del TFR. Quella che grava sulla liquidazione in caso di TFR in azienda è del 23-27% mentre quella sulle pensioni integrative è del 9-15%.

Su questo fronte non ha avuto un buon seguito l’entrata in vigore della possibilità di destinare ilTFR in busta paga che avrebbe dovuto comportare per molti italiani un aumento dello stipendio, superiore spesso a 50-80 euro netti, che il Governo considerava utili per rilanciare i consumi.

Solo 800 lavoratori su un milione (pari allo 0,08%) hanno deciso di perseguire questa scelta a due mesi dall’entrata in vigore della norma avvenuta il 3 aprile scorso. A frenarli,  secondo la rilevazione compiuta dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro, sono stati due motivi principali, il primo è legato proprio alla tassazione troppo pesante (68% degli interessati), il secondo alla volontà di non ridurre la propria pensione togliendo il TFR dal fondo (22% dei casi).

Gli aumenti di stipendio ottenuti da chi si fa pagare il TFR sulla busta paga sono soggetti infatti alla tassazione ordinaria, cioè  all’irpef. Per chi ha un salario di appena 1.500 euro, per esempio, il peso dell’irpef su ogni euro in più guadagnato è pari al 27%. Per chi ha una retribuzione di 2mila euro netti, invece, l’imposta applicata su ogni aumento nella busta paga è addirittura del 38%.

In merito al secondo motivo invece occorre considerare che avere il TFR in busta paga comporterebbe una riduzione del capitale accumulato di oltre 15mila euro a fine carriera (ipotizzando una rendita media del 3,4% all’anno del fondo pensione, versamenti sospesi per tre anni, pensionamento tra 30 anni, stipendio di 1.600 euro al mese). Questa diminuzione, causerebbe un taglio della rendita integrativa di circa di circa 1.000-1.100 euro lordi all’anno, in media 70-80 euro netti al mese. Quello che si guadagnerebbe oggi con il Tfr in busta paga, insomma, lo si perderebbe in gran parte sulla futura pensione di scorta.

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